lunedì 10 ottobre 2011

l'Osservatorio ringrazia di cuore Silvia Truzzi e il Fatto Quotidiano per il contributo dato alla conoscenza del fenomeno "morti sul lavoro"

Silvia Truzzi IL FATTO QUOTIDIANO Morti bianche, lavoro nero Non si capisce bene perché ci consideriamo un Paese avanzato, una moderna democrazia, un luogo civile: non ne abbiamo ragioni. E non penso alle miserie parlamentari. Penso a un posto dove quattro donne un mattino escono di casa per andare a lavorare e non tornano più a casa, perché la palazzina che ospita il maglificio si sbriciola sulle loro teste, le travolge e le uccide. La loro paga era quattro euro l’ora, “al nero”. Al nero significa senza tutele, senza diritti, senza contributi. Cioé vuol dire senza futuro, e mai come in questo caso la metafora è tristemente indovinata. Pochi soldi, maledetti e subito. Ma a quale prezzo. Dall’inizio dell’anno ci sono stati 508 morti per infortuni sui luoghi di lavoro, ma – secondo l’Osservatorio di Bologna – si arriva a contarne oltre 830 se si aggiungono i lavoratori deceduti “in itinere”. Erano 441 il 4 ottobre del 2010. L’aumento, in 12 mesi, è del 13,2%. Ci ricordiamo dei sette operai bruciati vivi nel rogo della Thyseenkrupp che ha occupato per mesi le pagine dei giornali, perché sono morti in un modo disumano e perché i dirigenti della loro azienda sapevano che i lavoratori rischiavano la vita tutti i giorni. Ma nei numeri dell’Osservatorio ci sono anche morti in breve sulle cronache dei quotidiani, locali e nazionali. Molti di loro sono operai, manovali, muratori extracomunitari che cadono da un’impalcatura o dentro un altoforno: invisibili senza cittadinanza e lavoratori senza garanzie. Che in comune con le donne di Barletta hanno l’unica urgenza di mangiare e far mangiare i propri figli. In questi tempi di crisi si sente ripetere ovunque: “Chi ha un lavoro non deve lamentarsi. Deve tenerselo stretto e ringraziare il cielo”. Il punto è che in questa fame di impiego, che è fame di cibo, i rapporti di lavoro si sono continuamente imbarbariti. Troppe garanzie, troppi lacci e scarsa flessibilità, dicono. Eppure la disoccupazione aumenta, la precarietà pure. E anche l’essere disposti a tutto per lavorare. I quotidiani e le televisioni hanno parlato molto dell’incidente di Barletta, ma scrivere oggi i nomi delle vittime è un ricordo doveroso. Perché non siano soltanto un numero che aggiorna le statistiche ma tornino a essere persone che hanno lasciato mariti, figli, genitori. Fotografie e disegni di bambini, un santino di Padre Pio. Matilde Doronzo, 32 anni, Giovanna Sardaro, 30 anni, Antonella Zaza, 36 anni e Tina Ceci, 37 anni sono morte insieme a Maria Cinquepalmi, 14 anni, figlia dei titolari del maglificio. Un edificio che scricchiolava – letteralmente – per avvertire che non era il caso di starci dentro: l’ampliamento della palazzina adiacente sembra aver determinato il crollo. I datori di lavoro delle operaie hanno perso una figlia e Mariella Fasanella l’unica sopravvissuta, sul Corriere della Sera, difende chi l’ha sfamata: “Sono brave persone. Eravamo noi a chiedere di non essere registrate. Ma cosa ne volete sapere, voi che venite da fuori? Ci davano 4 euro all’ora, è vero. Ma adesso non ho nemmeno quelli. E quando esco da qui devo cercarmi subito un altro lavoro, ho tre figli e l’affitto da pagare. Per voi contano solo le regole” . Non è così: dietro, anzi dentro, le regole ci sono le persone. E combattere per un lavoro che non si trasformi in morte bianca significa lottare per le persone. Per ogni nome che entra nelle statistiche. ( Il Fatto Quotidiano, 9 ottobre 2011

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