Silvia Truzzi IL FATTO QUOTIDIANO
Morti bianche, lavoro nero Non si capisce bene perché ci consideriamo un Paese avanzato, una moderna democrazia, un luogo civile: non ne abbiamo ragioni. E non penso alle miserie parlamentari. Penso a un posto dove quattro donne un mattino escono di casa per andare a lavorare e non tornano più a casa, perché la palazzina che ospita il maglificio si sbriciola sulle loro teste, le travolge e le uccide. La loro paga era quattro euro l’ora, “al nero”. Al nero significa senza tutele, senza diritti, senza contributi. Cioé vuol dire senza futuro, e mai come in questo caso la metafora è tristemente indovinata. Pochi soldi, maledetti e subito. Ma a quale prezzo.
Dall’inizio dell’anno ci sono stati 508 morti per infortuni sui luoghi di lavoro, ma – secondo l’Osservatorio di Bologna – si arriva a contarne oltre 830 se si aggiungono i lavoratori deceduti “in itinere”. Erano 441 il 4 ottobre del 2010. L’aumento, in 12 mesi, è del 13,2%. Ci ricordiamo dei sette operai bruciati vivi nel rogo della Thyseenkrupp che ha occupato per mesi le pagine dei giornali, perché sono morti in un modo disumano e perché i dirigenti della loro azienda sapevano che i lavoratori rischiavano la vita tutti i giorni. Ma nei numeri dell’Osservatorio ci sono anche morti in breve sulle cronache dei quotidiani, locali e nazionali. Molti di loro sono operai, manovali, muratori extracomunitari che cadono da un’impalcatura o dentro un altoforno: invisibili senza cittadinanza e lavoratori senza garanzie. Che in comune con le donne di Barletta hanno l’unica urgenza di mangiare e far mangiare i propri figli. In questi tempi di crisi si sente ripetere ovunque: “Chi ha un lavoro non deve lamentarsi. Deve tenerselo stretto e ringraziare il cielo”. Il punto è che in questa fame di impiego, che è fame di cibo, i rapporti di lavoro si sono continuamente imbarbariti. Troppe garanzie, troppi lacci e scarsa flessibilità, dicono. Eppure la disoccupazione aumenta, la precarietà pure. E anche l’essere disposti a tutto per lavorare.
I quotidiani e le televisioni hanno parlato molto dell’incidente di Barletta, ma scrivere oggi i nomi delle vittime è un ricordo doveroso. Perché non siano soltanto un numero che aggiorna le statistiche ma tornino a essere persone che hanno lasciato mariti, figli, genitori. Fotografie e disegni di bambini, un santino di Padre Pio. Matilde Doronzo, 32 anni, Giovanna Sardaro, 30 anni, Antonella Zaza, 36 anni e Tina Ceci, 37 anni sono morte insieme a Maria Cinquepalmi, 14 anni, figlia dei titolari del maglificio. Un edificio che scricchiolava – letteralmente – per avvertire che non era il caso di starci dentro: l’ampliamento della palazzina adiacente sembra aver determinato il crollo.
I datori di lavoro delle operaie hanno perso una figlia e Mariella Fasanella l’unica sopravvissuta, sul Corriere della Sera, difende chi l’ha sfamata: “Sono brave persone. Eravamo noi a chiedere di non essere registrate. Ma cosa ne volete sapere, voi che venite da fuori? Ci davano 4 euro all’ora, è vero. Ma adesso non ho nemmeno quelli. E quando esco da qui devo cercarmi subito un altro lavoro, ho tre figli e l’affitto da pagare. Per voi contano solo le regole” . Non è così: dietro, anzi dentro, le regole ci sono le persone. E combattere per un lavoro che non si trasformi in morte bianca significa lottare per le persone. Per ogni nome che entra nelle statistiche.
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Il Fatto Quotidiano, 9 ottobre 2011
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