venerdì 14 dicembre 2012

Di Vincenzo Luccarelli Bilancio dei morti sul lavoro da gennaio a novembre 2012

Pubblicato il 14 dic 2012 da Vincenzo Lucarelli Il quadro che si prospetta attraverso la lettura dei dati relativi ai morti sul lavoro nei primi undici mesi di quest’anno (forniti dallo specifico Osservatorio Indipendente di Bologna), evidenzia una situazione non ancora esaustiva, complessivamente parlando. Per il fatto che, da gennaio a novembre gli infortuni sul lavoro sono stati 587, mentre quelli in itinere 513. A cui andrebbero aggiunti 3860 incidenti sulle strade e quelli, non ancora identificati, nell’ ambiente domestico. Tuttavia, il lavoro dell’Osservatorio di Bologna, come sempre, è utile. Persino prezioso, perché al dato numerico di 587 + 513 si somma il raffronto con gli abitanti, con le regioni e le categorie esaminati. Financo con alcune significative percentuali di accadimento, da cui salta fuori, per esempio, che il 35,5% delle vittime documentate appartengono all’agricoltura per cause prevalenti addebitate allo schiacciamento nell’uso dei trattori. Segue l’edilizia, con il 28,4% sul totale, con cadute dall’alto delle impalcature. Mentre, l’industria vera e propria registra una percentuale pari all’11,8%, a cui ha concorso il terremoto dell’Emilia Romagna. I servizi, invece, non sono andati al di là del 5,8%. Altri, come il settore dell’autotrasporto nel suo insieme si attesta al 6,6%. Per conto suo (visto l’impiego bellico all’estero) và l’Esercito con il 2,7%. E, come elemento non proprio di curiosità, il 3% dei morti sul lavoro è appannaggio degli stranieri, inclusi i lavoratori extra-comunitari. Quanto all’età delle vittime, il 4,9% denuncia meno di 29 anni. Il 14,1% è riservato alla fascia di età tra 30 e 39 anni, il 24,48% tra 40 e 49 anni. Mentre dai 50 ai 59 anni la percentuale si ferma al 15,7%, per salire al 45% tra i 60 e i 69 anni e, oltre i 70 anni, si ferma al 12,8%. Nella classifica delle regioni a rischio infortuni sul lavoro, i primi posti sono occupati dal Trentino Alto Adige, dall’Abruzzo, dalla Val d’Aosta, dalla Calabria e dall’Emilia Romagna. Lazio, Puglia e Campania chiudono la classifica. Se questo è quanto viene specificato nella sua analisi da Carlo Soricelli (Curatore dell’Osservatorio Indipendente di Bologna) nel merito del rapporto tra morti e popolazione residente, una considerazione, niente affatto estemporanea, sorge spontanea. Ossia che lavoro e salute, in una situazione economica come l’attuale, non collimano alla luce del fallimento fin qui registrato dagli indicatori di ripresa e sviluppo. A cui si relazionano tempi troppo poco ordinari. Non a caso, dopo un’emergenza finanziaria e occupazionale che si trascina da oltre 4 anni, la turbolenza inesausta ha finito per legarsi alle inquietudini prevalenti nella società italiana. Fino a ritardare l’uscita dal tunnel, più volte evocata recentemente in sede internazionale e nazionale. Stando così le cose, la prevenzione diventa ipotetica, perché da una parte si continua a morire di lavoro e, dall’altra, si muore anche per assenza di lavoro. Emblematico, a riguardo, il binomio tra salute e lavoro, così come è saltato fuori di recente a proposito del caso ILVA di Taranto. Infatti, (come sottolinea il Corriere della Sera a pagina 32 del 3 dicembre 2012) “chi aveva salutato l’istallazione del maggior complesso siderurgico europeo, vede ora un contesto stravolto nel suo tessuto sociale”. Qui, prosegue il Corriere della Sera, “la siderurgia ha rubato la manodopera alla campagna, alla pesca, alle botteghe artigiane e, di fatto, ha lasciato sul territorio veleni, diossina, polveri ed acidi”. Per non parlare “della tromba d’aria dei giorni scorsi, quasi che gli Dei abbiamo voltato per sempre le spalle ai tarantini”. Detto questo, che fare? Ovviamente, non c’è da stare allegri anche se bisogna rimboccarsi le maniche e tentare una conciliazione con l’inconciliabile, laddove taluni protagonisti e attori della vicenda (senza escludere i politici e i governanti di ieri e di oggi) hanno accumulato molti torti e poche ragioni da vendere. Incluse le disillusioni prodotte dal vivere quotidiano di un mondo che si pensava perfetto. Come se la scienza contemporanea da sola avesse trovato il modo di realizzare un desiderio che “l’umanità (Corsera 25/9/2012) coltiva da millenni”. Rappresentata “dall’eliminazione dell’incertezza e del rischio per le nostre vite”. Che “fanno parte come un tutt’uno con l’esistenza umana”. D’altra parte, dall’epistolario tra lettori e giornali, emerge che “lavoro vivo e lavoro morto, distinguevano gli studiosi della condizione operaia”. “Lavoro vivo quello degli uomini per la fatica che affrontavano, lavoro morto quello delle macchine e degli opifici”. Condizione, quindi, contraddittoria tra lavoro e salute, quasi una catena moderna, che blocca ogni iniziativa di prevenzione, di risanamento ambientale e di ripresa produttiva.

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