Cari visitatori, il regista Gianluca Marcon girerà un film documentario sull'Osservatorio e la sua attività che ormai conclude 17 anni di monitoraggio e ovviamente su di me come artista sociale da oltre 50 anni Stiamo raccoglendo fondi dal basso (Crowdfunding) per non avere condizionamenti, se vuoi dare una mano alla realizzazione del progetto e dare anche un piccolo contributo vai al link https://sostieni.link/36551 se sei al computer inquadra e clicca sul qrcode col cell. e vai al link
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martedì 31 ottobre 2017
SILENZIO. "Nessuno" è morto. Anche ieri 4 morti sul lavoro e sette agricoltori negli ultimi tre giorni
lunedì 30 ottobre 2017
Cari visitatori del blog l'Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro compirà il 31 dicembre di quest'anno dieci anni di monitiraggio.
domenica 29 ottobre 2017
Sette agricoltori schiacciati dal trattore in sette giorni
venerdì 27 ottobre 2017
Oggi 26 ottobre Una normale giornata di sangue di agricoltore sparso sui campi italiani. Anche oggi due morti schiacciati dal trattore
giovedì 26 ottobre 2017
Una normale giornata dove muoiono senza che nessuno se ne accorge 4 lavoratori sui LUOGHI DI LAVORO e di almeno altrettanti che perdono la vita con il mezzo di trasporto
mercoledì 25 ottobre 2017
L'agricoltura italiana impregnata dal sangue dei nostri agricoltori
lunedì 23 ottobre 2017
Trattore Killer..Ora basta: alle prossime elezioni politiche mi candido come Ministro delle Politiche Agricole per far cessare questa strage dell'indifferenza. Altri tre schiacciati dal trattore negli ultimi tre giorni, tra questi anche una giovane donna di 29 anni. Anche un bambino di un anno tra le vittime
domenica 22 ottobre 2017
La politica sorda e cieca sulle morti sul lavoro. lLa strage continua senza sosta e in agricoltura ancora di più
giovedì 19 ottobre 2017
Sta finendo in prescrizione il processo che riguarda Giovanni Di Lorenzo morto per infortunio sul lavoro 10 anni fa. Quasi tutte le morti di lavoratori finiscono senza nessun colpevole
"Giovanni è morto sul lavoro dieci anni fa. La prescrizione rischia di salvare i colpevoli"
L'Espresso pubblica una lettera di Anna Vitale, moglie di un operaio che perse la vita nel 2007. La ruspa che guidava non era a norma. E si ribaltò, schiacciandolo. Dopo le condanne in primo grado il processo si è fermato. Mancano due anni alla scadenza dei termini: se non si conclude l'iter giudiziario, nessuno pagherà
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Il 26 luglio 2007 Giovanni Di Lorenzo perdeva la vita. È morto sul lavoro a 31 anni, lasciando una moglie e una figlia. Era in cantiere, come tutti i giorni. Guidava una ruspa, su una strada in pendenza, ma ne perse il controllo. Il mezzo si ribaltò, schiacciandolo.
Nel 2012, dopo cinque anni, si è concluso il processo di primo grado. I due datori di lavoro sono stati condannati: il mezzo guidato da Giovanni non era a norma, privo delle protezioni più elementari. Da allora non si è mosso più nulla. Non è ancora cominciato il processo di appello, e c'è il rischio che il reato cada in prescrizione.
L’Espresso pubblica la lettera-denuncia della moglie. Che aspetta ancora giustizia.
LA LETTERA
Mi chiamo Anna Vitale, ed ero sposata con Giovanni Di Lorenzo. Giovanni è deceduto il 26 luglio del 2007, in un cantiere vicino a Baiano, in provincia di Avellino. Stava effettuando dei lavori su una strada in elevata pendenza in località Monte Melito. Era alla guida di una ruspa, ma mentre procedeva in retromarcia in discesa, perse il controllo del mezzo. Provò a fermarne la corsa, anche dirigendosi contro la scarpata, ma si ribaltò e rimase schiacciato dal mezzo. La ruspa non era a norma, priva dei presidi che proteggono il guidatore in caso di ribaltamento, tanto più necessari in quanto il mezzo era destinato su una strada in forte pendenza.
Era il 26 luglio in piena estate. Quella mattina mio marito uscì di casa prima delle 7, salutandomi con un bacio. Ci saremmo dovuti vedere per l'ora di pranzo. Mi chiamò verso le 10 dicendomi che non sarebbe tornato, avrebbe mangiato un panino con i colleghi di lavoro.
Verso mezzogiorno mi chiamò mio padre, aveva ricevuto una telefonata il cui contenuto era vago, parlavano di un incidente. Telefonai subito a mio marito ma niente, il cellulare era spento. Sono salita subito in auto pensando al peggio e dopo un quarto d'ora arrivai sul posto. Era una strada di montagna, vidi la ruspa capovolta e tanti carabinieri. Nessuno mi fece passare, volevo vedere Giovanni, ma mi dissero che non potevo, non dovevo.
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In quel momento pensai a Carmen la nostra bambina di due anni, pensai ai nostri progetti, ai suoi sogni. Tutto sembra sereno… Poi un giorno arriva il dolore… Quello grande che porta via tutto, anche il desiderio stesso di vivere, lasciando un vuoto enorme… In quel momento vidi solo il nulla intorno a noi.
Finalmente nel 2012, dopo cinque anni, è arrivata la tanto attesa sentenza di primo grado. Erano quattro gli imputati al processo: un responsabile del procedimento di appalto nominato dal Comune che ha commissionato i lavori, una coordinatrice per la sicurezza in fase di progettazione e in fase di esecuzione dei lavori, e i due datori di lavoro. Solo questi ultimi sono stati giudicati colpevoli, condannati a due anni con la condizionale. Vale a dire zero. Mi dovevano risarcire, ma ci hanno impiegato pochissimo a intestare beni di proprietà e società a terze persone e prestanome.
Sono passati altri cinque anni e sto attendendo ancora che inizi il processo di appello. Mia figlia è cresciuta, ora vuole e pretende giustizia per un papà che non le è stato possibile conoscere. Non hanno potuto passeggiare insieme, giocare insieme, essere coccolata. Carmen aveva appena due anni allora e purtroppo non ha ricordi del padre.
La mia paura è che finisca tutto in prescrizione. Il reato di omicidio colposo viene prescritto dopo 12 anni e mezzo e dalla morte di Giovanni ne sono passati ormai più di dieci. Mio marito era un ragazzo di 31 anni, pieno di vita, e non è possibile che gli imputati giudicati colpevoli in primo grado non paghino per ciò che hanno fatto. Ad oggi sono liberi di condurre una vita normale.
Chiedo alle Istituzioni, alle associazioni, alla politica e ai mezzi d'informazione di riaccendere i riflettori sul caso di mio marito.
Anna Vitale
mercoledì 18 ottobre 2017
Nessuno ne parla, nessuno si scandalizza, ma anche ieri sono morti per infortunio sui luoghi di lavoro 4 lavoratori, con i morti con i mezzi di trasporto si raddoppiano.
martedì 17 ottobre 2017
Fico e la terra italiana impregnata dal sangue dei nostri agricoltori
venerdì 13 ottobre 2017
Storia della morte di Lisa Picozzi, giovane ingegnere morta sul lavoro, raccontata dalla madre Marianna Viscardi. A leggere questa breve storia non si può non avere gli occhi pieni di lacrime. Almeno, almeno ai cittadini normali, ma non a chi dovrebbe occuparsene, e non lo fa
ora sono sempre di più le persone che conoscono la tua triste storia. Speriamo che serva a qualcuno per riflettere.
Nessuno più deve morire così, il lavoro è vita e deve essere difeso da Leggi più severe
ora sono sempre di più le persone che conoscono la tua triste storia. Speriamo che serva a qualcuno per riflettere.
Nessuno più deve morire così, il lavoro è vita e deve essere difeso da Leggi più severe
Illustrazione di Salvatore Liberti
Squilla il telefono.
«Sono il datore di lavoro di Lisa… Lisa ha avuto un incidente. Non so ancora bene cosa sia successo».
«Dov'è adesso?».
«È all'ospedale di Tricase. Io prendo l'aereo delle 19.20».
Ho pensato a un incidente in macchina: mai avrei immaginato una drammatica caduta mortale. D'altra parte, il mio primo pensiero è stato: «Se un amministratore delegato si sposta per un incidente, non può essere una cosa banale».
Ho cercato online l'ospedale di Tricase e chiamato il pronto soccorso. «Sono il medico che ha soccorso sua figlia. È in coma, le stanno facendo una TAC».
In coma? Sarà un coma leggero, temporaneo, indotto - mi ripetevo. Mi rifiutavo di pensare a qualcosa di grave. Invece, della mia Lisa era rimasto solo il meraviglioso cuore, bradicardico ma pulsante.
Ho messo in allerta i parenti medici perché contattassero l'ospedale in cui era ricoverata mia figlia. Intanto preparavo una valigia con quattro cose - quelle che, pensavo, mi sarebbero bastate per restare a Tricase una decina di giorni, prima di riportare a casa la mia bambina - e spedivo mio marito in aeroporto a prendere i biglietti dell'aereo (erano gli ultimi due: il destino aveva pensato anche a questo).
Solo dopo, al momento dell'imbarco, ho chiamato mio nipote, neurochirurgo, per avere notizie di mia figlia. La sua risposta mi ha raggelata: «I medici sono tutti attorno a lei, ma non si sa se Lisa ce la farà».
Ho gridato parole sconnesse, in mezzo ai viaggiatori. Mi sono aggrappata alla statua della Madonna, nella piccolissima cappella di Linate. Ho pregato tutti i santi del Paradiso e ho affrontato tra le lacrime il viaggio verso l'inferno.
Ancora non sapevo, ma Chicco mi aveva detto una pietosa bugia. Durante il volo ho pensato di tutto e implorato la Madonna affinché non mi lasciasse senza mia figlia. Mi vedevo intenta ad accudirla in un letto dove lei giaceva inerte: mi sarebbe bastato averla.
Con un'angoscia che mi impediva di respirare ho aspettato l'arrivo a Brindisi. Aereo fermo, chiamo immediatamente mio nipote. Non mi risponde, comincio a capire. Mi richiama subito dopo e mi dice quello che mai, mai, mai, avrei voluto sentirmi dire: «Purtroppo, Lisa non ce l'ha fatta». L'aereo si è riempito di urla disumane. Poi il nulla.
Passano più di due ore prima che io possa vederla. I carabinieri aprono la stanza in cui giace mia figlia, inerte e bellissima, come se nulla l'avesse sfiorata. Mi sembra perfino che, dai suoi occhi socchiusi, si intravveda quel meraviglioso azzurro che incantava chiunque la guardasse. «Non è vero, non può essere vero», continuo a ripetermi tra le lacrime, mentre entro in un tunnel di disperazione che mi fa perdere il senso di ogni cosa.
Non so ancora cosa e come sia successo. Comincio a realizzarlo la mattina dopo, davanti al cancello di quell'edificio bianco dove la morte ha esercitato il suo unico diritto: quello di fermare la vita.
È allora che la vedo.
Lei che sale sulle scale appoggiate alla parete dell'edificio.
Lei che si muove sicura, perché non vede pericolo intorno ai suoi passi.
Lei che si china, misura, prende appunti.
Lei che sta tornando alla scaletta più piccola per scendere.
Lei che non può sapere che la sta aspettando una trappola.
Lei che mette un piede dove non avrebbe mai dovuto metterlo.
Lei che sbanda e precipita e, forse, è spaventata, perché capisce cosa sta accadendo.
Mi chiedo spesso qual è stato il rumore che ha chiuso la sua vita e, ancora oggi, non mi spiego come ho fatto a non morire insieme a lei.
Sono passati sette anni da quel giorno, il 29 settembre 2010. Ho percorso un devastante iter giudiziario, nelle cui udienze il suo nome mi ha scalfito troppe volte il cuore: «Quando l'ingegner Picozzi è arrivata…», «Lisa è salita da sola su quella superficie?», «Nessuno ha detto all'ingegnere che c'era un pericolo?» e via dicendo. Il processo ha stabilito la condanna in primo grado per i responsabili della morte di mia figlia, che hanno fatto ricorso in appello. Stiamo ancora aspettando.
Il mondo va avanti, nel suo bene e nel suo male. La mia luce resta spenta. Mi muovo nel mio nulla e resto sempre ferma là, a oltre mille chilometri da casa, dietro un cancello di ferro, dentro un capannone bianco, dove il mio cuore agonizza sopra il sangue di mia figlia.
Il mio dolore parla da solo e ha un linguaggio inequivocabile. Si insinua nel mio tempo, intacca la mia volontà, demolisce ogni mia difesa. Si è depositato nei miei occhi, spegnendone la luce, ha irrigidito le mie labbra, allontanandone il sorriso. Ha fatto di me un ectoplasma che gli altri vedono, abbracciano, consolano. Ma io non ci sono più, sto salendo una scala senza gradini, in preda a uno spasmodico bisogno di ritrovare quella metà di me che mi faceva vivere. Ma dove? Non ho luce, non ho orizzonte, non ho certezze e, intanto, mi consumo.
Ho sempre davanti agli occhi mia figlia. Rivedo i suoi sorrisi, risento la sua voce. La immagino mentre solca quella superficie, mi tormenta il suo ultimo passo. Mi sembra di sentire il suo grido: «Aiuto, mamma». E poi... Non voglio vedere il suo sangue. E, allora, fermo i pensieri e lascio che il mondo si oscuri finché non distinguo più i contorni delle cose.
giovedì 12 ottobre 2017
INCREDIBILE ma vero. I lavoratori continuano a morire anche se televisioni e giornali non se ne occupano. Dopo la "sbuffata" mediatica di qualche giorno fa quando morirono 4 lavoratori, con i due della diga di Naro.
martedì 10 ottobre 2017
Purtroppo viviamo in un Paese ultra liberista, disumano e direi anche stupido nei comportamenti. Un pensionato di 79 anni muore cadendo dal tetto. Loperaio straniero che molto probabilet lavorava in nero con lui avverte gli avventori di un bar sulla tragedie e fugge.
MORTI SUL LAVORO: SI ALZA LA VOCE DEGLI SCANDALIZZATI. MA SOLO PER UNA DICHIARAZIONE. POI TUTTO COME PRIMA. GIA' 1100 MORTI DALL'INIZIO DELL'ANNO
lunedì 9 ottobre 2017
Si alza il coro di scandalizzati perchè oggi sono morti 4 lavoratori, mentre è uno stillicidio giornaliero. Tra l'altro un terzo dei lavoratori morti sul lavoro spariscono dalle statistiche, Che fine fanno gli altri? Resuscitano ovviamente. Questa mattina del 9 ottobre sono morti a Naro di Agrigento due lavoratori cadendo in una cisterna di una diga. A Torino Mirafiori è morto un manovratore della ditta Villanava. Un operaio è morto in provincia di Ascoli Piceno cadendo da un silos
Ma ameno voi che dovreste occuparvene seriamente e non lo fate state in silenzio. Mi riferisco a politici, sindacalisti, giornalisti di stampa, televisioni e del web. che si occupano di queste tragedie solo quando ci sono morti collettive, mentre è uno stillicidio giornaliero, tra l'altro un terzo dei lavoratori morti per infortunio spariscono ogni anno da tutte le statistiche. Non appaiono quindi non sono morti. Fanno il miracolo di resuscitare, così fanno la gioia dei propri cari.