sono incredibili questi seminari, non tengono mai conto di realtà come la nostra, diventata punto di riferimento nazionale su queste tragedie che colpiscono oltre 1000 lavoratori ogni anno. Realtà che monitora i morti sul lavoro dall'ormai lontano 1° gennaio 2008. Parlano sempre "tra di loro" senza sapere mai com'è veramente la realtà, almeno per quanto riguarda i morti sul lavoro che sono mediamente il 25/30% in più di quelli monitorati dalle statistiche ufficiali. E la cosa ben più grave è che questi interventi, come la distribuzione a pioggia delle risorse, non aiutano minimamente ad attenuare il fenomeno che ci vede primi in questo triste primato in Europa, anche la Regione Emilia Romagna, da quando è iniziato il monitoraggio delle vittime è sempre al vertice di questa triste classifica, ma mai nonostante le continue mail mandate ai vari assessorati e alla segreteria della Presidenza della regione, si sono degnati di rispondere o di contestare i dati veramente poco edificanti inerenti alle morti sui LUOGHI DI LAVORO di questa regione. Poi ci si meraviglia dell'astensione e della politica così distante dai cittadini. I cittadini e i volontari come noi, che dedicano come volontari il loro tempo libero per sensibilizzare verso queste tragedie meritano rispetto e considerazione. Carlo Soricelli
A Bologna, il 27 maggio 2013, si è svolto il 42° Seminario del Programma Interdisciplinare di Ricerca Organization and Well-being, “Contro le ‘danze immobili’ sulla prevenzione nei luoghi di lavoro”, in collaborazione con Inchiesta, CGIL Emilia Romagna, Dipartimento di Scienze Aziendali dell’Università di Bologna. Interventi di: Vittorio Capecchi (Direttore di Inchiesta), Giovanni Rulli (Medicina del lavoro), Paolo Pascucci e Franco Focareta (Diritto del lavoro), Michela Marchiori e Francesco M. Barbini (Teoria dell’organizzazione), Gino Rubini e Andrea Caselli (CGIL Emilia Romagna), coordinazione di Bruno Maggi (Programma Organization and Well-being, Università di Bologna e Ferrara ). Il Programma Interdisciplinare di Ricerca Organization and Well-being realizza da trent’anni prevenzione primaria con attività di analisi di situazioni di lavoro, di progettazione ergonomica, di formazione, e promuove studi, pubblicazioni e dibattiti scientifici (www.taoprograms.org).
Premessa
“Il numero degli infortuni sul lavoro è in calo”, “scendono gli incidenti mortali”, comunica l’INAIL da qualche anno, senza confrontare i dati degli incidenti con i dati riguardanti l’occupazione e il tempo di lavoro, cioè l’effettiva esposizione ai rischi.
La notizia del decremento degli incidenti nei luoghi di lavoro, in particolare gli incidenti mortali, è ripresa di solito con enfasi dai mezzi di comunicazione, e ha come ovvia conseguenza molteplici rassicurazioni, di cui è invece assai opportuno diffidare. Porta, infatti, a credere che la prevenzione sia migliorata. E che ciò dipenderebbe da una serie di fatti tra loro connessi: l’adeguatezza e l’efficacia delle norme vigenti in tema di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, la validità delle “buone pratiche” raccomandate dall’ISPELS e poi dall’INAIL, il comportamento appropriato delle imprese, la fondatezza scientifica dell’approccio alla prevenzione comunemente diffuso e sostenuto dalle discipline del lavoro, e così via. Purtroppo tutto ciò non corrisponde a verità.
La tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro non è affatto migliorata. Le norme vigenti sono peggiori delle precedenti e in genere non sono nemmeno rispettate; le pratiche raccomandate e l’approccio che viene proposto allontanano, di fatto, da una reale prevenzione. E anzitutto non è vero che l’incidenza degli infortuni sia effettivamente in diminuzione.
L’incidenza degli infortuni
Vediamo a confronto alcuni dati. Gli incidenti mortali – secondo l’INAIL – sono stati in media: 3,03 al giorno nel 2007; 3,06 nel 2008; 2,87 nel 2009; 2,68 nel 2010; 2,43 nel 2011; 2,38 nel 2012. Ma non va dimenticato che gli incidenti di cui parla l’INAIL sono esclusivamente quelli ufficialmente dichiarati a questo istituto e riguardanti i lavoratori a esso iscritti per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni. Numerose categorie di lavoratori regolarmente occupati non sono considerate. L’occupazione complessiva è costantemente calata negli stessi anni: secondo i dati ISTAT, nel 2008 sono registrati 128.000 occupati in meno rispetto all’anno precedente, nel 2009 altri 204.000 occupati in meno; la tendenza non varia sino al quarto trimestre 2012, quando il numero degli occupati diminuisce di altre 148.000 unità rispetto a un anno prima. La flessione è particolarmente sensibile nell’industria, e tra i dipendenti a carattere permanente; nel 2012 si arresta inoltre la crescita dei dipendenti a termine. Secondo l’INPS le richieste di disoccupazione nei primi 11 mesi del 2012 sono state 1.285.299, con un aumento del 14,49% rispetto allo stesso periodo del 2011. Contemporaneamente la richiesta di cassa integrazione è aumentata a dismisura: +300% nel 2009 rispetto al 2008; un ulteriore +60% nel 2010; l’INPS attesta che nel 2010 le ore di cassa integrazione sono state quasi 1.200 milioni, 973 milioni nel 2011, 1.090 milioni nel 2012. Le ore lavorate totali sono, per queste ragioni, notevolmente diminuite. Una rilevazione dell’ISTAT pone in evidenza che, accanto alla diminuzione di posti di lavoro, va considerata la riduzione delle ore di lavoro degli occupati: nel secondo trimestre del 2012, ogni lavoratore dipendente ha lavorato un numero di ore in meno pari al 2,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e nell’industria la flessione è stata del 3,2%. Anche in assenza di elaborazioni accurate, che sappiano tener conto congiuntamente delle variabili enumerate, appare evidente che è diminuita l’effettiva esposizione ai rischi. Ciò in generale, e in particolare nell’industria, dove di solito si verificano gli incidenti più gravi. E’ in questo quadro che occorre collocare la valutazione dei dati dell’INAIL sugli infortuni. E chi volesse persistere nel trarre da essi conforto sulla tutela della salute e della sicurezza, dovrebbe contestualmente giustificare il costante aumento delle malattie professionali, attestato dalla stessa fonte INAIL. Rispetto al 2007, le malattie professionali dichiarate hanno fatto registrare nel 2008 un incremento del 4%, nel 2009 del 20%, nel 2010 del 46%, nel 2011 del 60%.
Sin qui, inoltre, si tratta di lavoro regolare. Gli incidenti nel lavoro irregolare non compaiono. Ma non si può non tenerne conto in una valutazione esauriente, solo perché non se ne ha ufficiale notizia. Anche sull’entità del lavoro irregolare si hanno soltanto stime, tuttavia sufficientemente impressionanti. Una stima dell’ISTAT indica per il 2010 due milioni e seicentomila lavoratori “in nero”, molti dei quali svolgono più di un lavoro irregolare, per cui le “unità di lavoro in nero”, secondo il linguaggio usato dall’ISTAT, sarebbero nel 2010 circa tre milioni. Secondo stime dell’Eurispes, già nel 2007 più di un terzo dei lavoratori dipendenti esercitava un secondo lavoro “in nero”, cui si doveva aggiungere il contributo di circa due milioni di pensionati e di circa seicentomila immigrati con permesso di soggiorno. Il lavoro degli immigrati irregolari sfugge anche a queste stime, peraltro sempre prudenti, poiché necessariamente basate su analisi indirette. Quanti sono gli incidenti, e le malattie professionali, nel lavoro irregolare, ove si può presumere che vi sia ancor minore tutela della salute e della sicurezza che nel lavoro regolare? Quanti sono, complessivamente, gli incidenti sul lavoro, quanti in più rispetto ai soli incidenti dichiarati? Infine, si dovrebbero includere nel calcolo i casi di suicidi indotti sia dalla perdita dell’occupazione sia dall’insostenibilità delle sue condizioni. Se si guarda con attenzione all’incidenza dei danni occorsi alla salute dei lavoratori, cominciando dai più gravi e con esiti letali, non si può affermare che negli ultimi anni si sia ridotta, assai probabilmente si è invece accresciuta.
Le pratiche correnti
Invece di coltivare rassicurazioni sulla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, occorre chiedersi perché non migliora, ma semmai peggiora. Cominciamo dalle pratiche correnti. Come si comportano le imprese? Le grandi imprese, spesso multinazionali, attuano in larga misura scelte di delocalizzazione di parti delle proprie attività. Secondo l’ISTAT il 29,3% delle grandi imprese, e l’11% delle medie imprese, realizza attività all’estero. Nel settore industriale l’incidenza della delocalizzazione di attività all’estero da parte delle grandi imprese è di circa il 32%, per le medie imprese ammonta all’11,3%. La delocalizzazione è solitamente diretta verso paesi caratterizzati da livelli salariali più bassi, ma anche da sistemi legislativi e di controllo meno stringenti in materia di sicurezza sociale, orari di lavoro, tutela delle libertà sindacali, e di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. In gran parte riguarda lavori gravosi e maggiormente soggetti a rischi. Per quanto riguarda le attività svolte sul territorio nazionale, le grandi imprese sono propense a calcolare per le possibili ammende e per le difese legali voci di spesa inferiori a quanto richiederebbe il rispetto delle norme. Le piccole e medie imprese possono fare affidamento sulla bassissima probabilità di controlli. Nelle varie regioni si calcola la presenza di un ispettore del lavoro ogni circa 1.500 – 2.000 imprese: ogni impresa può essere sottoposta a ispezione in media una sola volta nell’arco di un numero considerevole di anni.
Le stesse norme vigenti, peraltro, concedono alle imprese ampie discrezionalità nella tutela della salute e della sicurezza. I datori di lavoro che occupano fino a 50 lavoratori possono avvalersi delle “procedure standardizzate” di valutazione dei rischi elaborate dalla Commissione consultiva permanente. In attesa di tali procedure, e comunque dal 2008 a fine giugno 2012, i datori di lavoro che occupavano fino a 10 lavoratori hanno potuto “autocertificare l’effettuazione della valutazione dei rischi”. Ciò ha disposto l’art. 29, ai commi 5 e 6, del d.lgs.81/2008, il “testo unico” vigente in tema di “tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro”. L’art. 30 dello stesso decreto esime da responsabilità persone giuridiche, società e associazioni (secondo il d.lgs. 231/2001) che adottano un “modello di organizzazione e di gestione” che implica l’adempimento degli obblighi giuridici riguardanti la salute e la sicurezza. Sono ritenuti conformi ai requisiti (comma 5) i modelli che seguono le linee guida UNI-INAIL “per un sistema di gestione della salute e della sicurezza sul lavoro” del 2001, o il British Standard OHSAS 18001:2007. Ulteriori “modelli” possono essere indicati dalla Commissione consultiva permanente.
E’ opportuno tradurre il linguaggio involuto e nello stesso tempo impreciso del legislatore. Le procedure non possono non essere standard, e i “modelli di organizzazione e di gestione” non sono altro che insiemi di procedure. Le disposizioni citate dicono, in sostanza, che ove siano disposte (adottate e attuate) determinate procedure, si ritengono assolti gli obblighi riguardanti la salute e la sicurezza. Altra cosa, tuttavia, è lo svolgimento di attività effettivamente corrispondenti ai dettati delle procedure: tale coincidenza non si verifica mai, come dimostrano biblioteche intere di ricerche sul lavoro (evidentemente ignote al legislatore). Peraltro numerose valutazioni critiche di campo giuslavoristico riguardano principalmente la ridondanza del testo legislativo e la sua tendenza a voler risolvere i problemi della prevenzione tramite procedure e certificazioni.
La “Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro” è istituita in base all’art. 6 del d.lgs. 81/2008. E’ composta di rappresentanti di vari Ministeri e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, delle regioni e delle province autonome, delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro. Ha tra i suoi rilevanti compiti: elaborare le procedure di valutazione dei rischi di cui all’art. 29; indicare i modelli di organizzazione e gestione di cui all’art. 30; esaminare l’applicazione della normativa sulla salute e la sicurezza; validare le “buone prassi” in materia; redigere annualmente una relazione sullo stato di applicazione delle norme.
Le “buone prassi” sono “soluzioni procedurali” elaborate principalmente dall’ISPELS (confluito nell’INAIL nel 2010), cui si affiancano le “linee guida” per l’applicazione delle norme e in particolare per la valutazione dei rischi, indicate dagli stessi istituti. Si tratta di percorsi standard, che il d.lgs. 81/2008 richiama espressamente all’art. 2, c. 1, lettere v e z, e all’art. 9, c. 2, lettere i e l. Il riconoscimento legislativo, e la fonte istituzionale di tali insiemi di procedure, inducono senza dubbio a ritenere assolti gli obblighi di legge da parte delle imprese che vi fanno riferimento. Ciò, per inciso, rischia di indebolire, se non vanificare, il ricco dibattito sull’interpretazione delle norme che dovrebbero assicurare la tutela della salute e della sicurezza. Tutto è demandato all’adozione di procedure.
Ma perfino le procedure possono essere aggirate, o quanto meno liberamente interpretate. E ciò sembra permesso per disposizione legislativa, in quanto in tal senso si possono interpretare i possibili effetti dell’art. 18, c. 1 del d.lgs. 106/2009 che modifica l’art. 28, c. 2 del d.lgs.81/2008. L’art. 28 del decreto 81/2008 prescrive la valutazione dei rischi, e una relazione su tale valutazione in cui devono essere “specificati i criteri adottati”. Quest’obbligo era previsto anche dal d.lgs. 626/94, abrogato dall’attuale “testo unico”, ed era stato interpretato nel senso che si dovesse trattare di “criteri oggettivi”, con particolare riferimento agli orientamenti dell’unità di medicina e igiene del lavoro della Comunità europea: doveva trattarsi in qualche modo di una oggettività scientificamente fondata. Ma il d.lgs. 106/2009 – che modifica quasi ogni articolo del decreto dell’anno precedente nella prevalente se non unica direzione di riduzione delle responsabilità e degli obblighi del datore di lavoro e di attenuazione delle sanzioni previste – recita all’art. 18 che “la scelta dei criteri è rimessa al datore di lavoro”. Ogni oggettività è perduta. Il datore di lavoro è libero di decidere in merito alla valutazione dei rischi che gli compete, attestandone egli stesso la validità.
Ci si può chiedere – a fronte delle pratiche prescritte, suggerite, concesse, dal d.lgs. 81/2008 (e successive modificazioni) – quale possa essere il contenuto della relazione annuale della Commissione consultiva permanente sullo “stato di applicazione delle norme”. La Commissione, di cui fanno parte dieci rappresentanti dei lavoratori, prende atto dei vari percorsi procedurali e attesta di avervi contribuito. Ciò appare dalla relazione dell’anno 2012, pubblicata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri l’11 aprile 2013. La Commissione si è riunita in media ogni quarantacinque giorni, per produrre “procedure standardizzate”, indicare “modelli di gestione”, validare “buone prassi”… In tal senso certifica che sono state applicate (per quanto le compete?) le norme. Nulla dice sull’applicazione delle norme, o delle stesse procedure, nei luoghi di lavoro. E’ arduo sostenere che sia stata così realizzata la tutela della salute e della sicurezza.
Gli approcci
La tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro è l’obiettivo del d.lgs. 81/2008: così appare nella sua intitolazione e come afferma nell’art. 1, “in conformità con l’art. 117 della Costituzione” e “nel rispetto delle normative comunitarie”. Una valutazione esauriente dell’adeguatezza del “testo unico” alla realizzazione dell’obiettivo atteso, o almeno per cercare di perseguirlo, deve prendere in esame l’approccio che indica, e la concezione di prevenzione che esso presuppone. In tal modo si può verificare, da un lato, la congruenza delle scelte di proceduralizzazione, e dall’altro lato, se sono rispettate le normative comunitarie, nonché la Costituzione, che all’art. 32 pone la tutela della salute come diritto fondamentale.
Le “linee guida” proposte dall’ISPELS e in seguito recepite dall’INAIL rappresentano un indicatore privilegiato dell’approccio indicato dal legislatore. E la loro rilevanza è già stata sottolineata, sia in quanto esse ispirano i vari percorsi procedurali, sia in quanto guidano le prassi effettive (nei casi in cui le imprese non si sottraggono in toto alle prescrizioni). Il documento di base, riguardante la “valutazione per il controllo dei rischi”, elaborato nel 1966 (in seguito alla promulgazione del d.lgs. 626/94) e successivamente aggiornato, esprime nel modo più chiaro come viene intesa la prevenzione. In breve, la valutazione deve preliminarmente identificare i rischi esistenti nelle situazioni di lavoro, per poi procedere alla stima della gravità e della probabilità dei loro effetti, e infine porre in atto le misure per farvi fronte. La prevenzione presupposta riguarda indubitabilmente le conseguenze dei rischi, non la loro insorgenza. E’ la prevenzione che il tradizionale linguaggio biomedico chiama “secondaria”, in quanto rivolta a evitare l’accadimento del danno, o addirittura “terziaria”, se diretta a fronteggiare il danno già riscontrato.
Questa concezione di prevenzione non appariva pienamente compatibile con quanto previsto (benché con ambiguità e contraddizioni) dal d.lgs. 626/94, ma è perfettamente adatta all’approccio promosso dal d.lgs. 81/2008. In esso le “misure generali di tutela” (art. 15) iniziano con la valutazione dei rischi, non v’è alcuna traccia di prescrizione di evitare i rischi; la valutazione, poi, è limitata ai “rischi presenti” dall’articolo dedicato alle definizioni (art. 2, q). E la eventuale ricerca di un’idea migliore di prevenzione nella definizione contenuta nell’art. 2, lettera n, no può ignorare che quando il decreto parla di rischi (ad es. agli art. 9, 18, 25, 26, 28, 32, 34, 36, 41, 44) si riferisce solo a “rischi presenti”, o “esistenti”, all’”esposizione ai rischi”, alla “gestione dei rischi”. Ecco l’enunciato chiave: gestione del rischio (risk management). Il d.lgs. 81/2008 non è diretto alla prevenzione dei rischi, ma alla loro gestione. Perciò la scelta della proceduralizzazione è perfettamente congruente.
Il d.lgs. 626/94 non faceva cenno alla gestione del rischio. Il mutamento d’approccio operato dal “testo unico” è gravido di conseguenze. E assume una particolare rilevanza per quanto riguarda i cosiddetti “rischi psicosociali”, tra cui emblematico è il rischio di stress. Il riferimento esplicito allo stress da parte del legislatore del 2008 (art. 28, c. 1) è stato accolto positivamente e anche con enfasi da molte parti, senza osservare che il termine usato è linguisticamente insostenibile e privo di significato specifico. Ma soprattutto non si riflette su ciò che la gestione dei “rischi psicosociali” implica.
Il termine (che è sembrato innovativo, e quindi si è largamente e acriticamente diffuso) è “stress lavoro-correlato”. Il legislatore è stato probabilmente influenzato dalla distinzione tra “affezioni correlate con il lavoro” (da work related diseases) e le tradizionalmente trattate affezioni derivanti da agenti fisici e chimici (occupational diseases): una proposta avanzata negli anni 1980 dall’allora direttore della Clinica del lavoro dell’Università di Milano, e ripresa nell’ambito della disciplina, nel lodevole intento di contrastare l’uso di “affezioni (e danni, e rischi) psicosociali”. Da un lato, l’enunciato “stress lavoro-correlato” in italiano corretto non regge, e d’altro lato non ha alcun senso particolare, poiché si sta parlando di stress nel lavoro. Queste osservazioni non sono irrilevanti: pongono in evidenza la scarsa considerazione, da parte del legislatore del 2008, delle conseguenze che derivano da un riferimento approssimativo a un tema importante e complesso.
Non si può parlare genericamente di “rischi collegati allo stress”, e demandare a procedure la loro identificazione e valutazione. Lo stress non è un “danno”, è una sindrome psico-neuro-endocrina complessa che può essere attivata da stimoli della più varia natura, e che può avere le più varie ripercussioni nell’organismo. Il rapporto tra stimolo e stress, e tra stress ed esiti patologici è un rapporto di possibilità, non di probabilità come la medicina è solita attribuire (peraltro discutibilmente) ai nessi tra agenti fisici o chimici e loro esiti. Ciò che può attivare la sindrome di stress va identificato nella configurazione della situazione di lavoro. Si è diffusa invece l’interpretazione dello stress come “squilibrio tra la percezione che una persona ha delle costrizioni impostegli dal suo ambiente e la percezione che essa ha delle risorse di cui dispone per fronteggiarle”. Questa definizione si trova nelle “linee guida” dell’ISPELS, in conformità con l’Accordo Europeo del 2004 sullo stress al lavoro. L’approccio indicato è la “gestione” di tale rischio “psicosociale” secondo gli standard proposti da Health and Safety Executive, istituzione del Regno Unito per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Le “linee guida” (in Italia e negli altri paesi europei) ostentano l’appoggio di una “vasta produzione scientifica”, ma in realtà hanno un unico e identico riferimento: una definizione psicologica dello stress come derivante da una “valutazione cognitiva” del soggetto coinvolto. Il che, per conseguenza, implica la “gestione del rischio” in capo al soggetto stesso.
Tutti i rischi vanno indagati alla fonte, cioè nella configurazione della situazione di lavoro, per poterli prevenire. Ma ciò assume particolare importanza per l’assurda categoria dei “rischi psicosociali”. La proposta di tale categoria residuale di rischi (ormai condivisa dalle discipline, dalle istituzioni, dalle norme di legge) non è altro che il risultato di un’incapacità di interpretare i nessi tra condizioni della situazione di lavoro e ricadute sulla salute dei lavoratori che non sono riconducibili a una semplice spiegazione di rapporti di causa-effetto, propria dell’interpretazione tradizionale – orientata da criteri di predeterminazione tecnica ed economica – dei danni di origine fisica o chimica. Le conseguenze sono gravi: invece di analizzare le scelte di progettazione e strutturazione della situazione di lavoro che sono all’origine dei rischi, l’approccio alla “gestione” sposta l’attenzione sui rischi già presenti ove si tratti di agenti nocivi fisici o chimici, e direttamente sui lavoratori nel caso di rischi (denominati per insipienza) “psicosociali”. I risultati, evidenti, sono la permanenza di tassi intollerabili di infortuni e l’aumento delle malattie professionali, le politiche di assistenza dei soggetti di fronte ai rischi, le pratiche di wellness, con cui si cerca di curare i lavoratori, o più semplicemente di aiutarli a fronteggiare situazioni di lavoro che non si sa – o non si vuole – modificare.
Il “vero paziente”
Il “vero paziente” è il lavoro, come ha indicato Luigi Devoto il 20 novembre 1902, nell’atto costitutivo della medicina del lavoro come disciplina autonoma. E quindi la prevenzione – nel suo senso compiuto – deve essere perseguita nel lavoro: prevenire i rischi significa evitare che si manifestino, combatterli alla fonte, nelle scelte che configurano le situazioni di lavoro. Ricusare ciò significa anzitutto discostarsi dal senso comune, per il quale ogni sorta di rischio in una situazione di lavoro non può aver origine che dalle scelte che la progettano e la pongono in essere. Significa inoltre disattendere le prescrizioni della direttiva del Consiglio europeo adottata il 12 giugno 1989 per promuovere la salute e la sicurezza nel lavoro, e indirizzata agli Stati membri affinché fosse recepita nei rispettivi ordinamenti e attuata.
La direttiva 89/391/CEE, detta “direttiva quadro”, prescrive la prevenzione intesa come primaria, cioè rivolta a evitare i rischi e a combatterli alla radice, prima che si manifestino nei luoghi di lavoro; generale, cioè riguardante l’intera situazione di lavoro; programmata, cioè concepita anticipatamente e in termini generali; integrata nella concezione delle situazioni di lavoro. Tale indirizzo implica un obbligo di analisi del lavoro, una valutazione generale ed esaustiva, con il pieno coinvolgimento dei lavoratori, fondata oggettivamente su criteri documentati, di forma iterativa, rivolta al miglioramento continuo delle condizioni di lavoro.
Queste prescrizioni erano state recepite, anche se non integralmente e correttamente, dal d.lgs. 626/94, che ha trasposto (in ritardo) la direttiva europea nell’ordinamento italiano, ma sono totalmente disattese dal d.lgs. 81/2008 attualmente in vigore. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea già aveva condannato l’Italia per alcuni scostamenti del d.lgs. 626/94 dalla direttiva comunitaria (C.G.U.E., sez. V, 15 novembre 2001, c. 49/00). Attualmente, l’Italia rischia un nuovo deferimento alla Corte di Giustizia, in seguito a una procedura di infrazione (n. 2010/4227) avviata dalla Commissione europea nel 2010, in particolare per violazione della direttiva per quanto riguarda la responsabilità del datore di lavoro in caso di delega e subdelega di alcuni dei suoi obblighi concernenti la salute e la sicurezza, e i termini impartiti per la redazione dei documenti concernenti la valutazione dei rischi per una nuova impresa o per modifiche sostanziali apportate in un’impresa esistente. Va notato, tuttavia, che tale procedura di infrazione è stata stimolata da una iniziativa autonoma e individuale – lodevolissima – di un operaio metalmeccanico fiorentino (Marco Bazzoni), rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, e che riguarda solo punti specifici della normativa in vigore. Ci si può chiedere perché non vi sia stata sinora alcuna iniziativa istituzionale, anzitutto da parte del sindacato, e riguardante l’impianto generale del d.lgs. 81/2008.
In sintesi
L’incidenza degli infortuni sul lavoro, in particolare gli incidenti mortali, non è diminuita negli ultimi anni, come apparirebbe dai dati dell’INAIL, che si riferiscono unicamente agli incidenti dichiarati e concernenti i lavoratori iscritti per l’assicurazione obbligatoria a questo istituto. Occorre tener conto del calo costante dell’occupazione, e dell’aumento abnorme della cassa integrazione, cioè della rilevante diminuzione delle ore lavorate, e quindi dell’effettiva esposizione ai rischi. Occorre poi tener conto del lavoro irregolare, del lavoro “in nero” di quote consistenti di lavoratori dipendenti, di pensionati, di immigrati con permesso di soggiorno, nonché del lavoro degli immigrati irregolari. Non si può affermare che l’incidenza degli infortuni sul lavoro si sia ridotta, assai probabilmente si è invece accresciuta. Come si è accresciuta l’incidenza delle malattie professionali.
Ci si deve allora chiedere perché la tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro non migliora, ma semmai peggiora. Per quanto riguarda le pratiche correnti si può anzitutto osservare che le imprese tendono a sfuggire agli obblighi di legge, delocalizzando attività gravose e maggiormente esposte a rischi, preferendo pagare le ammende piuttosto che rispettare i dettati normativi, fidando nella scarsissima probabilità di controlli ispettivi. Le stesse norme vigenti, peraltro, concedono alle imprese ampie discrezionalità nella tutela della salute e della sicurezza, prevedendo procedure di vario genere, in particolare le procedure di valutazione dei rischi contenute nelle “linee guida” elaborate dall’ISPELS e riprese dall’INAIL, che, se adottate, assolvono dagli obblighi prescritti. A ciò si aggiunge la possibilità per il datore di lavoro di scegliere i criteri per la valutazione dei rischi, una scelta autonoma che può incidere sulla stessa attuazione delle procedure e tradursi in una sorta di autocertificazione.
Le pratiche basate sulla proceduralizzazione sono peraltro congruenti con l’approccio espressamente indicato dalle norme vigenti. Si tratta di un indirizzo volto, nel migliore dei casi, alle conseguenze dei rischi, non a evitare che vengano in essere nella situazione di lavoro. Ciò appare con piena evidenza nelle “linee guida”, e ancor prima nel testo del d.lgs. 81/2008, che fa riferimento esclusivamente a rischi esistenti, e alla “gestione dei rischi”. In realtà le norme vigenti non sono dirette alla prevenzione dei rischi, ma alla loro gestione. Le gravi conseguenze che ne derivano hanno particolare importanza per quanto riguarda i cosiddetti “rischi psicosociali”. Invece di ricercare l’origine dei rischi nelle scelte di progettazione e strutturazione della situazione di lavoro che li possono attivare, l’approccio alla “gestione” sposta l’attenzione sui rischi già presenti ove si tratti di agenti nocivi fisici o chimici, e direttamente sui lavoratori nel caso di rischi assurdamente denominati “psicosociali”. Il caso dello stress al lavoro è il più significativo e rilevante.
La prevenzione – nel suo senso compiuto – deve essere perseguita nel lavoro, nelle scelte di progettazione e configurazione delle situazioni di lavoro. Ciò è quanto suggerisce il senso comune, e quanto ha prescritto la direttiva del Consiglio europeo adottata il 12 giugno 1989 per promuovere la salute e la sicurezza nel lavoro. Essa, imprecisamente recepita dal d.lgs. 626/94, appare totalmente disattesa dal d.lgs. 81/2008. Il “testo unico” ora vigente non promuove, di fatto, la tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. C’è da dubitare che rispetti il dettato costituzionale. E di fronte all’inadeguatezza delle norme, alle pratiche elusive delle imprese, alle pratiche raccomandate che allontanano da una reale prevenzione, ai morti e agli infortunati quotidiani, si assiste a un pervasivo immobilismo.