Tendenza invertita dopo anni di calo. Un effetto dell’economia che riparte, ma anche di investimenti in prevenzione fermi al palo
Se dopo gli innegabili progressi del passato, prevenzione e controlli subiscono una battuta d’arresto - e questo sembra sia successo durante gli anni della crisi - è ovvio attendersi (adesso che la crisi è passata) che il maggior numero di ore lavorate ci consegni un proporzionale aumento di incidenti. Difficile che il disoccupato di lungo corso che trova finalmente lavoro, anche se precario, si metta a questionare se in un cantiere c’è scarsa protezione contro le cadute dall’alto, o se in fabbrica la pressa meccanica che lavora le lamiere non ha sistemi di trattenimento in caso di guasto.
Le storie dietro ai numeri Fatto sta che alla fine la lista delle morti, definite inspiegabilmente “bianche”, torna a infittirsi allungando un’ombra sinistra sulla ripresa economica. Sei settembre, Settimo Milanese: schiacciato da una pressa in un’azienda di componenti meccanici. Stesso giorno a Roccavione (Cuneo): stritolato dal macchinario di una cartiera. Nove settembre, Presicce (Lecce): precipitato da otto metri mentre stava lavorando sul tetto di un capannone.
Stesso giorno a Oppeano (Verona): colpito dal gancio metallico sospeso di un’acciaieria. Undici settembre, Milano: schiacciato da un ponteggio crollato improvvisamente all’interno di un cantiere edile. Dietro queste storie maledette, sono le statistiche dell’Inail, l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, a testimoniare la recrudescenza di questa interminabile strage. Tra gennaio e luglio gli incidenti sul lavoro denunciati (ma non ancora riconosciuti come tali) sono stati 380.236, contro i 375.486 degli stessi mesi di un anno fa. I morti sono saliti da 562 a 591, ventinove in più. Quindici di questi sono legati a due note vicende del gennaio scorso: la frana sull’hotel di Rigopiano e la caduta dell’elicottero di soccorso nei pressi di Campo Felice.
Le vittime invisibili Dunque: cinquecentonovantuno morti in sette mesi, quasi tre al giorno. La maggior parte di loro (431) ha perso la vita sul posto di lavoro, gli altri 160 (in forte crescita) durante il tragitto da casa alla fabbrica o al cantiere. Ma non per tutte queste tragedie i superstiti riceveranno un indennizzo dall’Inail (in genere pari a metà della retribuzione): bisognerà dimostrare che l’infortunio è legato al lavoro svolto. E soprattutto che il lavoratore fosse iscritto all’Inail prima di perdere la vita. Di solito viene riconosciuto un 65% dei casi denunciati. Si presume dunque che saranno alla fine circa 380 gli incidenti mortali indennizzabili per i primi sette mesi dell’anno. Ma lo sapremo solo tra un anno.
«È come se il 35-40% di quei morti sparisse», commenta Carlo Soricelli, che da Bologna cura da anni un osservatorio indipendente che monitora gli infortuni mortali sul lavoro. «Questo succede perché molti non sono iscritti all’Inail o sono in nero. Solo un esempio lampante: i pensionati schiacciati dai trattori in campagna. Sono già 105 dall’inizio dell’anno, ma ufficialmente non esistono». Del resto, non è una novità che moltissimi incidenti non solo non vengono indennizzati ma sfuggono del tutto alle stesse statistiche nazionali: infatti manca in Italia un ente pubblico incaricato di registrare la totalità degli infortunati, e non solo quelli iscritti all’Inail.
La maledetta ripresa Ma torniamo ai motivi che hanno interrotto quella che i dati ufficiali hanno finora definito una caduta storica delle morti sul lavoro, anche se contestata dall’Osservatorio di Bologna. Negli ultimi sedici anni i decessi si sono più che dimezzati. E la maggior parte di questo crollo è avvenuto nell’ultimo quinquennio. Merito del maggiore livello di conoscenza e di consapevolezza. Merito della crescente automazione produttiva. E ad abbassare la frequenza degli incidenti ha contribuito anche la crisi economica. Ma se questo è l’andamento degli ultimi decenni, che cosa sta succedendo adesso? Perché per la prima volta aumentano sia la totalità degli infortuni sia le morti sul lavoro?
«È chiaro – dice Franco Bettoni, presidente dell’Anmil, l’associazione dei lavoratori mutilati o invalidi del lavoro – che la preoccupante crescita degli infortuni di questi mesi, concentrata soprattutto nelle attività industriali e nelle aree più produttive del Paese (Nord Ovest, Lombardia in testa, e Nord Est), debba in qualche misura ricondursi ai segnali di ripresa dell’economia». Insomma, più si lavora e si produce, più si è esposti al rischio di infortuni. Ma siamo sicuri che è tutta colpa della crescita?
Quei corsi inutili Un modo per capire se e in che misura entrano in gioco altre cause, è quello di andare a vedere quante sono le morti sul posto di lavoro per ogni milione di occupati. Ossia tener fuori dal calcolo l’aumento dell’occupazione che si è verificato nell’ultimo anno. Nei primi sette mesi del 2016 – si legge nel rapporto dell’Osservatorio sicurezza sul lavoro di Vega Engineering – le morti erano 18,6 per ogni milione di lavoratori. Nello stesso periodo di quest’anno sono salite a 19,2.
Questo significa che gli infortuni mortali sono cresciuti anche a prescindere da quel po’ di ripresa che stiamo conoscendo. «La ripresa – dicono all’Inail – potrebbe avere avuto un ruolo, ma ci sono motivi più importanti per spiegare questo aumento degli infortuni, che tuttavia – è bene chiarirlo – non inverte affatto la caduta storica conosciuta negli ultimi decenni. Uno di questi motivi è l’età sempre più avanzata dei lavoratori, per via delle riforme pensionistiche: i riflessi e la lucidità diminuiscono, i rischi aumentano. Bisognerebbe ripensare all’organizzazione del lavoro nelle imprese, con regole nuove». In effetti quest’anno gli over 60 hanno subìto duemila infortuni in più e il 2% in più di morti sul lavoro.
È possibile inoltre – dicono molti osservatori – che soprattutto durante gli anni della crisi le imprese abbiamo investito meno nei sistemi di prevenzione. O si siano limitate ad organizzare corsi
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