Lisa Picozzi
Il suo sorriso immenso e luminoso è in quel selfie che è diventato un simbolo. Lisa indossa con orgoglio il caschetto giallo da ingegnera perché i suoi sogni di bimba erano divenuti realtà. Lavorava in cantiere ed era felice, di quella felicità piena di speranza e gioia. Invece Lisa è proprio lì, nel suo luogo di lavoro, che non ha trovato scampo. «Quando parlo di quello che è successo a mia figlia non dico più che è stata una morte bianca. È stato omicidio, omicidio sul lavoro» le parole di Marianna Viscardi sono accorate, impietriscono. La tragedia che l’ha sommersa è enorme e devastante. Lisa Picozzi, sua figlia, non c’è più. Quasi otto anni fa, il 29 settembre del 2010, è morta cadendo dal tetto di un capannone che stava visionando. Perché il lavoro che dà libertà e dignità, può anche privare del bene più prezioso: la vita.
Gli ultimi dati diffusi dall’Inail parlano di una strage senza fine. Nei primi tre mesi del 2018 le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale sono state 212, ben 22 in più rispetto alle 190 dello stesso periodo del 2017 (+11,6%). Un aumento, precisa l’Istituto, legato agli incidenti avvenuti nel tragitto di andata e ritorno tra casa e posto di lavoro. I numeri dell’Osservatorio Indipendente Morti per infortuni sul lavoro sono ancora più cupi. “Dal 1° gennaio ad oggi le persone che hanno perso la vita sono state 255, con i decessi sulle strade e in itinere si arriva a una cifra ancora più alta. Oltre 450 vittime” si legge in una nota pubblicata nel loro sito web.
Mamma di Lisa
Lisa, trentun anni, ingegnera edile esperta di centrali e impianti fotovoltaici era nata a Milano e abitava con la mamma e il papà a Rodano, a pochi chilometri dalla metropoli meneghina. Bambina prodigio, aveva saltato la prima elementare iniziando subito con la seconda classe. Dopo il liceo scientifico non aveva avuto incertezze. Si era iscritta al Politecnico di Milano in ingegneria edile. «Sin da quando era piccola diceva che da grande avrebbe costruito le casette» ricorda la mamma. Una passione grande quella legata al mondo delle costruzioni ereditata dal papà ingegnere che si affiancava a un’altra grandissima passione: quella per la pallavolo. Sportiva agonista, palleggiatrice e stoffa da leader, Lisa era capitana della squadra Cs Alba che militava in Serie B2. E proprio questi due grandi amori hanno accompagnato gli ultimi istanti della sua giovane vita spezzata all’improvviso. «Il giorno prima di morire – racconta Marianna – era tornata a casa a mezzanotte dopo l’ultimo allenamento. Aveva puntato la sveglia alle 4.37 del mattino perché doveva andare in Salento per controllare l’avanzamento dei lavori di alcune centrali fotovoltaiche che aveva progettato in provincia di Lecce. Nel pomeriggio mi arriva una telefonata. Era l’amministratore delegato della SunSystem srl., l’azienda in cui mia figlia lavorava. Lisa aveva avuto un incidente». Una chiamata che gela Marianna anche se non le viene spiegato cosa è successo, non conosce ancora la sorte della figlia. Con il cuore colmo di angoscia papà e mamma prendono un aereo, non sanno che Lisa non ce l’ha fatta. Dopo tre ore dall’incidente il suo cuore si era arreso e aveva smesso di battere.
Lisa si trovava a Tricase per effettuare un sopralluogo sulla superficie di un edificio della Selcom, una società del Gruppo Adelchi. Era salita su una scala di alluminio e poi su una scaletta in legno per passare dalla copertura dei blocchi servizi alla copertura del capannone. Aveva preso appunti, compiuto i rilievi tecnici e fotografici, poi, mentre stava per scendere, è precipitata da un’altezza di 7 metri sfondando una lastra in fibrocemento che ricopriva la superficie del capannone e occultava un lucernario non a norma e non segnalato in nessun modo. Una trappola mortale così l’ha definita il giudice che ha condannato in primo grado proprietario e legale rappresentante dell’azienda. Una vittoria a metà, perché il processo continua e ora ci sarà l’appello. La prima udienza si sarebbe dovuta tenere il 5 febbraio di quest’anno. È stata rimandata ad ottobre. «Dopo quasi quattro anni c’è stato questo nuovo slittamento. Mi sono infuriata. Ho presentato un’istanza alla corte d’appello perché venga anticipata l’udienza. Sono disposta a iniziare lo sciopero della fame. Farò tutto il possibile perché si accertino definitivamente le responsabilità della morte di mia figlia. Il processo non mi darà indietro mia figlia, ma per me è importante che il valore della vita di Lisa sia riconosciuto. Le morti sul lavoro sono una piaga terribile. Accadono a causa dell’incuria dello Stato che non veglia sull’applicazione corretta delle leggi sulla sicurezza. Ci sono, ma spesso vengono violate. Non c’è abbastanza controllo. Mia figlia si è scontrata con tutto questo. Con la disonestà della logica del profitto, dello Stato che non vigila. L’edificio dal quale lei è precipitata non aveva mai avuto l’agibilità. Il lucernario maledetto in cui è caduta non compariva sui disegni che lei aveva visionato, non era segnalato, era impossibile capire che lì c’era un pericolo mortale. Come ha detto il giudice questa morte poteva e doveva essere evitata, nessuno l’ha impedita» afferma questa mamma il cui dolore è infinito. Un abisso senza fondo. Marianna e la figlia vivevano in simbiosi, un amore immenso che si nutriva di abbracci pieni di affetto, quelli che Marianna non potrà avere più. «Sono morta anche io quel 29 settembre. Mia figlia era tutto per me. Era la mia fonte di ispirazione, la mia forza. Quegli occhi color del cielo, limpidi e splendenti erano capaci di entrare nel cuore di tutte le persone che incontrava. Continuano ad arrivarmi messaggi, lettere e chiamate che mi confermano quanto fosse meravigliosa».
Tenace, umile, generosa, bella con un cuore grande. Creativa, eclettica, si dedicava ai collage e al découpage, disegnava, suonava il piano e amava anche sciare e nuotare.
Lisa era però prima di tutto una professionista piena di talento, punto di riferimento della sua azienda come ha ammesso anche il suo datore di lavoro. Marianna non riesce a darsi pace. Si è persa in un dolore atroce, ma sa che deve continuare a lottare. «Ci sono alcune persone che mi dicono che mi devo rassegnare. Rassegnarmi a cosa? Chi mi ha tolto mia figlia mi ha portato via occhi, cuore, anima; ha scardinato le porte e i muri della mia esistenza, ha scavato un solco così profondo dentro il mio essere che, ogni giorno, mi chiedo perché vivo. Ma io non mi posso arrendere. Lo faccio per l’amore che provo per Lisa» ribadisce Marianna che ora dedica tutte le energie che le sono rimaste a diffondere la storia della figlia perché non cali l’attenzione sul grande problema delle morti sul lavoro. Una realtà terribile che ogni giorno miete vittime e porta dolore e sconforto in tante famiglie. «Bisogna creare una consapevolezza, ci vuole una coscienza civile. Dobbiamo ricostruirla. È questa la mia missione» dice infine Marianna.
Lisa sta diventando un emblema. A lei è dedicata un albero di magnolia nel parco vicino a casa, ma non solo. È commemorata e ricordata sui campi di pallavolo, con concorsi letterari dedicati a lei, con tante iniziative che parlano di quello che le è accaduto. Lei prima ingegnera in Italia a morire sul posto di lavoro.
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