«Più tardi possibile».
«No, prima possibile. Mi creda, non c’è più una sola ragione per cui io voglia continuare a vivere».
Sei anni e mezzo fa Marianna Viscardi ha perso la sua unica figlia. Lisa Picozzi, milanese, aveva 31 anni ed è morta mentre svolgeva la sua professione: era ingegnere edile. È precipitata dal solaio di un capannone industriale a Tricase, nel Salento. E, secondo la sentenza di primo grado, l’incidente doveva e poteva essere evitato. Ma il processo per accertare le responsabilità della sua morte è ancora in corso: è stato chiesto l’appello.
Secondo Carlo Soricelli, coordinatore dell’Osservatorio Indipendente di Bologna sugli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, nel 2016 sono morti 641 lavoratori sui luoghi di lavoro, e oltre 1400 se si considerano le vittime sulle strade e in itinere. Ma la stima è minima, per l’impossibilità di conteggiare i morti sulle strade fra le partite iva individuali e i morti in nero.
Questa settimana al Senato è stata presentata la proposta di legge del parlamentare di Sinistra Italiana-Sel Giovanni Barozzino. L’obiettivo è quello di «una punizione più severa nei confronti di chi sul lavoro cagiona la morte di vittime innocenti, per distrazione, disinteresse, o peggio per un’assoluta non curanza delle normative sul lavoro».
Da tre anni Lisa lavorava per la SunSystem srl, società nel settore delle energie rinnovabili, e aveva la responsabilità della progettazione di impianti fotovoltaici e di centrali fotovoltaiche sviluppate a terra. Proprio per seguire il completamento di una di queste, che lei aveva progettato e installato nell’agosto 2010 a Tiggiano, provincia di Lecce, il 29 settembre di quell’anno si trovava in Salento e, per esigenze aziendali, le era stato chiesto di fermarsi a Tricase per un sopralluogo sulla superficie di un edificio.
Aveva trovato una scala in alluminio per salire sulla copertura dei blocchi servizi e una scaletta in legno, che era lì da diversi anni, per passare dalla copertura dei blocchi servizi alla copertura del capannone. E da lì, quando aveva quasi ultimato i rilievi tecnici e fotografici, è caduta da 7 metri, sfondando una lastra in fibro-cemento, che ricopriva l’intera superficie dell’edificio, nascondendo un lucernario non protetto a norma di legge da una rete anticaduta. Trasportata d’urgenza all’ospedale, è morta tre ore dopo.
«Per me ogni giorno è sempre quel 29 settembre – spiega la madre Marianna -. È tutto fermo all’ora in cui ho ricevuto quella terribile chiamata. Da allora il telefono, per me, ha perso ogni importanza: non c’è più nessun messaggio che io aspetti».
Lisa era diventata un ingegnere edile molto apprezzato, dopo essere stata una studentessa modello, ma aveva reso orgogliosi i suoi genitori anche per come giocava a pallavolo (fino alla soglia della serie A), perché era creativa, umile, generosa, e per la sua bellezza. Era alta, slanciata, aveva un viso da cameo e occhi color fiordaliso che alla sua mamma sembra di riconoscere ogni volta che guarda il cielo.
E ancora: «Solo chi ha perso un figlio può davvero capire quanto è grande il dolore che ti squarcia il cuore e quanto è poca cosa tutto quello per cui la maggior parte della gente si affanna. Perdere un figlio provoca un senso di smarrimento e di devastazione, che va oltre ogni umana comprensione. Gli altri possono solo cercare di immaginarlo, provare a esserti vicini, nel tentativo di aiutarti a sopportare il senso di abbandono e la disperazione che ti tolgono il respiro e la voglia di esistere. Ma è un’impresa impossibile».
Non passa giorno, non passa ora che Marianna non pensi a sua figlia: «Mi sono sempre chiesta che fine faccia l’anima, quando si muore. Sono certa che l’intelligenza delle persone non svanisca, ma rimanga. Lisa mi dà tanti segni della sua presenza, però noi avevamo un rapporto simbiotico, molto fisico, e lei aveva mille attenzioni per me: quei segni non mi bastano. Sono credente, ma non abbastanza da accettare che quello che è successo possa essere espressione della volontà di Dio».
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